I giorni passano. L’Italia è chiusa da due settimane e i giorni, come sono soliti fare, passano. Il Coronavirus non sembra arrestarsi e con lui neanche le notizie che lo riguardano.
Intanto i giorni continuano a passare e noi altri si inizia a riflettere.
Tra gente che canta sui balconi, infermieri sfregiati, giornalisti e politici in quarantena, le prese in giro e relativi dietro front esteri, forse ci stiamo dimenticando di qualcosa. O di qualcuno.
Di quando il re dei virus approdò nella Penisola
Non ricordo le date, ma ricordo le parole.
Quando la Cina iniziò ad avvertire il mondo della presenza del Coronavirus, noi altri pensavamo si trattasse di un’influenza. Certo che lo pensavamo: era quello che ci veniva raccontato alla tv (è sempre bene credere a quello che viene detto alla TV).
Gli Illuminati d’Italia, però, cominciarono a mormorare: “È una guerra batteriologica”. Sfido io, anche su questo: la Cina non è famosa per le sue fughe di notizie e, all’epoca, parevano esserci appena 50 morti. Insomma, una bazzecola.
A un certo punto, i telegiornali cambiarono il tono della notizia del giorno. Tutto si fece più allarmante e noi altri, poveri piccoli italiani, cominciammo a essere talmente confusi da colpirci da soli.
Un bel giorno – domenica 8 marzo, per la precisione – la bozza di un decreto che passerà alla storia scappò dalle mani di un qualche politico e finì dritto nelle mani di un qualche giornalista (forse). Presto iniziò a girare sui social e su WhatsApp, facendo precipitare buona parte del Paese nel panico.
La gente lasciò la Lombardia alla velocità della luce, e così feci io con Genova, senza farmi prima ovviamente mancare un bell’attacco di panico.
Due giorni dopo, tutta Italia era in quarantena per cercare di contenere il contagio da quel misterioso e ormai chiaramente letale Coronavirus.
E ora?
E ora ci troviamo in una situazione paradossale.
Da una parte la gente che canta sui balconi. Dall’altra le bare ammassate nelle chiese.
Da una parte, la gente che pensa di essere in vacanza e ne approfitta per andare a correre. Dall’altra, medici e infermieri che svengono in corsia per i massacranti turni di lavoro.
Parrebbe doveroso farci su un ragionamento. Uno piccolino: un ragionamentino.
Cantiamo il Coronavirus. Muoriamo di Coronavirus
Quando ho letto per la prima volta che Beppe Fiorello chiedeva il lutto nazionale a sostituzione dei canti balconari, ho storto il naso.
Pensavo: ma i canti sono belli, tirano su di morale le persone, le fanno sentire un po’ meno sole!
Mia madre mi ha insultata. E sì, le mamme non smettono mai di sgridarti.
Così mi sono messa a riflettere e ho concluso che non so più cosa pensare.
Fiorello ha ragione, e con lui mia madre. La gente sta morendo! Muore davvero. Muore in una maniera atroce, sola, soffocata, impaurita. Muore con la consapevolezza di non poter stringere la mano dei figli, dai genitori, di sorelle, fratelli, mogli, mariti nel momento che da tutta la vita hanno temuto. Dottori si ammalano e muoiono come pazienti, infermieri sono allo strenuo delle forze. C’è paura, c’è incertezza, c’è terrore.
Non ci stanno proprio i canti, in tutto questo.
O sì?
Penso ora a quegli anziani che si trovano impauriti, incerti, soli in casa. Magari un po’ di voci, di allegria potrebbero rendere la quarantena meno pesante.
Poi però penso di nuovo ai contro dei canti sul balcone: non è che tutta questa allegria distrae un tantino l’attenzione dalla gravità del Coronavirus? No perché è pieno di gente per le strade: corrono, giocano, chiacchierano, leggono… Non hanno mica capito il significato della frase “DOVETE RESTARE A CASA”.
Magari allegria e canti fanno passare un messaggio sbagliato e distorto. Magari se ci concentrassimo di più sui morti (e sul modo in cui si realizza questa antipatica condizione) l’Italia si fermerebbe per davvero.
Si fermerebbe, sì. Ma solo per ripartire più veloce e più forte di prima.
Scrittrice made in Biella, con tante passioni ma troppa fifa e troppo poco tempo. Hufflepuff di diritto, semi cantante, aspirante qualcuno.
Ho una penna e non ho paura di usarla.